Connessioni

di Omar Bellanova

Ti svegli così. Stesso letto. Tra le tue lenzuola, il soffitto bianco e la solita luce che invade la stanza facendosi spazio tra le tende. Solito risveglio ma tutto è diverso. Guardi alla finestra un paesaggio urbano immutato ma surreale. Il traffico tace, qualche avventore percorre le strade solitario. Si cammina in pochi. Si cammina soli. 

Qualcosa di invisibile ai tuoi occhi ha modificato senza modificarlo il mondo fuori da quella finestra. Qualcosa di altrettanto invisibile dentro di te si è attivato mutando sensazioni e stati d’animo. Qualcosa di antico che la tua esperienza di vita diretta ancora forse non conosce. 

Paura? Si c’è anche quella. Ma non è la solita paura, la vecchia cara paura rassicurante. 

La mente è un pò stordita, ovattata. Sei in grado di ragionare lucidamente, ma il tempo della riflessione è dilatato. La tua parte impulsiva per il momento tace. 

Cerchi la solita rassicurazione attraverso il rito del caffè. Mentre prepari la moca fuori dalla porta di casa senti  il vicino che esce. Corri allo spioncino. “Esci?” vorresti dirgli. Ma resti dietro alla porta e lui scompare solo in fondo al corridoio. 

Caffettiera sul fuoco. Vai verso il frigo. Hai fatto la spesa un paio di giorni prima. Carne, uova, un po di frutta e qualche birra la loro presenza ti dice che per oggi va tutto bene, ma dovrai uscire. 

Dalla memoria affiorano in silenzio sensazioni. “The Day After”. Era un film degli anni 80. Eri bambino quando l’hai visto, zero trama nei ricordi, ma la sensazione, si la sensazione che hai provato vedendo quelle persone che dopo lo scoppio uscivano da un rifugio antiatomico, quella c’è. Rispolverata quasi inspiegabilmente, è lì, sveglia a evocarti un senso dormiente nell’anima assieme a qualcosa che ti fa percepire il mondo diverso.

Ti fai la barba, hai bisogno di normalità. Ti aggrappi ai gesti quotidiani che definiscono una cornice rassicurante. “Sempre farsi trovare in ordine per l’apocalisse” Sorridi. Ok l’ironia è conservata, ottima cosa. 

È sorprendete il numero di cose con cui vieni in contatto quando rallenti e sai molto bene che oggi dovrai farci i conti.

Indossi l’orologio. Il tempo è sempre importante. Un Omega a corda. Perché cosi ti ricorderai di prendertene cura. Il tempo non scorre a prescindere. Giri la corona. Il rumore del tendersi della molla riempie la stanza. 

“Mettetevi in fila, troverò tempo per tutti”. Parli con i tuoi pensieri.

Il silenzio si lascia invadere dal ticchettio.

Ti ricordi di quando lo sentivi seduto sulla poltrona. In quei momenti di silenzio dopo una domanda al paziente. Una di quelle che ci voleva quasi tutta la seduta per arrivare a formulare e che facevano piombare la stanza nel silenzio. Come ti diceva il tuo maestro, quel silenzio dove puoi solo respirare. Quel silenzio dove il paziente vive mille scenari diversi che non aveva mai previsto prima. In quei silenzi il ticchettio dell’orologio ha ogni volta accompagnato il tuo silenzioso respiro.

La mente ti riporta sempre automaticamente in un posto dove ti sei sentito al sicuro nei momenti in cui ti percepisci più fragile. Uno dei tuoi è indubbiamente nella stanza della terapia. 

Ti lasci andare alla ricerca di questa sicurezza. Dove qualcosa di apparentemente caotico assume una sua forma ordinata attraverso il rito della condivisione. Sei lo sciamano della sofferenza invisibile di qualcuno. Il rito lo hai imparato negli anni, una pratica interminabile che si perfeziona all’infinito per essere vissuta ogni volta sempre differente, arricchita da incalcolabili sfaccettature. 

Lo hai vissuto mille volte, il contatto con la sofferenza la paura, lo sconforto, l’impotenza. Hai imparato a restare li, con il dolore altrui. A respirarci dentro, capendo che la sola logica non è sufficiente ad alleviarlo, che ci sono funzionamenti appresi nel passato che agiscono silenti, impedendoti di lenire quella sofferenza,  di prendertene cura. Allora si resta li in due, a comprendere e ascoltare qualcosa che diviene sempre più definito e soprattutto condiviso. Un percorso che dura mesi, forse anni. Incontri di 50 minuti, intensi e definiti dove dal dolore emergono sensazioni, immagini, emozioni forti, memorie nascoste in angoli reconditi della mente del corpo. Le rievochi con le domande, con la tua presenza, costruendo alleanze contro un nemico invisibile di cui comprendi come prenderti cura; smettendo di combatterlo percepisci come accudirlo, dargli nuove strade. 

Ricevi il dono di mille vite che fluiscono in una sola. Questo ti rende più saggio, ricettivo, intuitivo. Non puoi negare che questo rito ti ha incantato, fatto suo. Una matita paziente e silenziosa che ha disegnato le rughe espressive sul tuo volto. Capisci presto in questo lavoro quanto non è prudente lasciarsi assorbire totalmente dalla poltrona del terapeuta. Conservi molto bene dentro di te quelle volte in cui hai avuto bisogno di accomodarti sul divano del paziente. Ti ha ricordato la tua umanità. Lo sai molto bene quanto sia faticoso guadagnare un punto nuovo, diverso, sulle cose che ti affliggono personalmente. Sai bene quanto prezioso sia il ruolo della condivisione. 

Guardi l’agenda. Un pò di nomi riempiono il tempo della tua giornata. Lo spazio condiviso oggi è diverso. Sulla poltrona di fronte a te non hai il divano del paziente ma un computer. Sono anni che lavori già attraverso le videochiamate. La cosa non ti destabilizza, sai che funziona, che si può fare. Ricordi quei momenti in cui, attraverso uno schermo, condividevi le emozioni con un tuo paziente dal Giappone, smarrito in un paese straniero che tanto era in grado di donare, ma che altrettanto era in grado di esigere come tributo alla solitudine. Lontano da casa, alla ricerca di un calore attraverso le sedute faticosamente ricavate negli spazi di congiunzione di fusi orari antitetici. 

La tua mente si sposta in Africa dove un’altra tua paziente ha scelto di portare speranze laddove ne hanno più bisogno. L’aveva fatto rinunciando alle sue certezze, cose che a volte diamo per scontate e non apprezziamo: un fissa dimora, un posto di lavoro sicuro, la vicinanza alla famiglia. Tu sei stato qualcosa di familiare che ha scelto di portarsi con sè, con cui ha affrontato l’ignoto, il cambiamento e la solitudine di un paese straniero. Un contenitore di emozioni, una mente saggia da assorbire, un amico con cui ricordarsi di sorridere con il quale non si ha timore di mostrare ogni angolatura delle proprie emozioni. Una delle prime persone a cui dopo anni ha voluto raccontare di aver trovato un amore.

Fissi quello schermo rievocando quei momenti in cui una connessione internet ti ha avvicinato a persone lontanissime da te. Mai avresti pensato di doverlo fare con chi oggi, pur essendo a pochi chilometri, non può essere presente di persona. Una distanza obbligata per combattere un altro nemico invisibile, uno di quelli che non avevi ancora previsto.

Inizia la prima chiamata. La tua domanda di rito non cambia. “Come va?”

“Dottore… Ho paura!” Una risposta che ti risuona dentro miscelandosi al ticchettio dell’orologio. 

I vostri sguardi si incontrano attraverso lo schermo.

Questa volta è diverso, non devi cercare lontano. La paura è li con voi e vi unisce senza troppa fatica. Respiri. La ascolti. La accogli e la fai accomodare con te su quella poltrona che per te ha sempre rappresentato uno dei posti più sicuri del mondo.

Poi è inevitabile. Pensi a lei. Lontana da te. All’ultima volta in cui vi siete svegliati insieme. Alla sua schiena nuda accarezzata dai capelli lunghi. In pace tra le lenzuola che attende il tuo abbraccio. Ti senti incastrato in quel fotogramma, immobile ed incapace di muoverti. 

Ti risuona nel petto la sensazione di quell’assenza, l’incertezza del quando potrai rivederla. Accogli il tuo tormento. Ne assapori indistintamente tutte le note emotive. Respiri.

Ricordi la telefonata della sera prima. La sua voce calda e rassicurante entra in quel respirare. 

Ogni sua parola, come sempre, è in grado di riempirti l’anima. La distanza non annulla quel posto sicuro che fa parte di te. Senti che questo nemico invisibile, per quanto faccia paura, non può annullare qualcosa di cosi forte. Ti senti protetto. Riempito.

Il fotogramma si blocca. Il tuo viso si rilassa, il ticchettio svanisce, mentre lei ti afferra forte la mano portandola sul suo seno. Dentro di te esplodono tutti i momenti con lei, le vostre risate, le cene, le passeggiate sui sampietrini dove vi siete tenuti stretti. I momenti in cui scoprivi che il tuo essere buffo poteva essere la cosa più sensuale che potevi possedere agli occhi di chi ti ama. Rinunci nuovamente a dover controllare ogni cosa. Ti ricordi di quel quadro che hai appeso nel tuo studio. Un’onda del mare. L’hai messo li per ricordarti il senso di pace che si prova quando rinunci a combattere gli eventi e ne accetti la loro natura. Cosi come una tavola da surf che rispetta l’impetuosità del mare trovando il suo equilibrio si fa condurre a riva.

La tua paura è sempre li, sulla poltrona, ma è meno grande, è meno scura.

“Sa che anche io ho paura? Anzi le confesso che la tengo proprio qui accanto a me. È quasi una compagna necessaria in questi giorni. Però mi parli della sua, ascoltiamola e vediamo dove si è posato questo spettro. Per tutto il tempo che sarà necessario io sarò sempre qui a cercare insieme per capire come prendercene cura”.

4 risposte a “Connessioni”

  1. Mi è piaciuto molto questo articolo, infonde un senso di sicurezza e tranquillità!
    Consiglio di leggerlo è davvero utile, ci aiuta a sentirci più vicini e più forti.
    Alisia

  2. “Ti ricordi di quel quadro che hai appeso nel tuo studio. Un’onda del mare. L’hai messo li per ricordarti il senso di pace che si prova quando rinunci a combattere gli eventi e ne accetti la loro natura.”
    Una di quelle grandi verità che infondono anche nell’animo più tormentato la consapevolezza che si può sempre operare una scelta che rispecchi ed alimenti le proprie speranze nonostante ci si lasci attraversare dalle proprie paure..
    Complimenti!

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